Anonime memorie

di Francesca Pisano, volontaria MH a Lampedusa –

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa.

“Migrante non identificato”. Questa una delle iscrizioni sulle lapidi nel cimitero di Lampedusa. In alcune si è tentato di aggiungere piccoli dettagli sul sesso della persona sepolta, sulla sua età, sulla regione d’origine. Poche, pochissime contengono un nome, un cognome, una data di nascita. Persino la data della morte non è quasi mai nota. Lo è quella del ritrovamento dei corpi, rinvenuti dalla Guardia Costiera o dai pescatori che, usciti la notte a bordo delle loro barche, si sono imbattuti in spettacoli agghiaccianti. Quasi mi sembra di vederli, quegli uomini dalla pelle bruciata dal sole, che bevendo un caffè discutono al bar: «Ma cchi sta ricennu?! Era il 2001, me l’arricuordo io!». «No − risponde l’altro − era molto prima, sarà statu lu 1997». Perché la verità è che di molte di queste persone ritrovate in mare, forse della maggior parte, non si è nemmeno potuto definire l’anno di morte.

La memoria svanisce, i racconti si confondono fra loro e per la sopravvivenza degli isolani forse è bene sia così: per andare avanti certe immagini è meglio rimuoverle o farle diventare consuetudine, normalità. La normalità di una lapide, per esempio. 

Si dice che funerali e i riti funebri di vario genere siano più importanti per chi è vivo, per chi resta. Girando per il cimitero di Lampedusa e osservando quelle tombe senza nome appare chiaro che la possibilità per i sopravvissuti di commemorare una figlia, un marito, un amico, una fidanzata sia un privilegio non concesso ai “rimasti”. Quei blocchi di cemento bianco decorati da disegni che rimandano al mare più che nomi recano numeri. Date, probabili età, numero di morti e di sopravvissuti ad un naufragio. 271. Duecentosettantuno. 528. Cinquecentoventotto. Come quel numero che ha risuonato con un’eco assordante nelle ultime settimane: 117. Centodiciassette. Che se lo ripeti ad alta voce sembra quasi prender forma, quel numero lì. Leggerlo non rende bene l’idea, rimane una sequenza di cifre sterili, remote e intangibili. I nomi no, quelli risuonano ben chiari. Dopo la visita al cimitero mi ripeto nella mente la lunga lista di etichette che nella vita mi son state cucite addosso durante le personali migrazioni in altri Paesi: “viaggiatrice”, “esterofila”, “cervello in fuga”. MAI una sola volta queste definizioni non sono state accompagnate dal mio nome, da quell’insieme di nove lettere che parzialmente mi identifica. È in questo processo di identificazione che noi esseri umani conferiamo personalità e soprattutto dignità alla persona che ci troviamo di fronte. Sembriamo dire, attraverso il nome “io ti riconosco, riconosco la tua esistenza”. Per coloro che nel mare hanno trovato la morte e sotto queste tombe sepoltura, ricevere un nome sembra privilegio troppo grande, uno sforzo sovraumano. 

Se dessimo nomi e cognomi all’enorme numero di corpi che il Mediterraneo restituisce alle sue coste, riconosceremmo non solo l’esistenza di queste persone, ma soprattutto la loro morte. Una morte tutt’altro che casuale, tutt’altro che imprevedibile, tutt’altro che inevitabile. Quando una morte non ha un nome, è la morte stessa a non esserci mai stata, a non esistere. Non dare nome ai corpi deresponsabilizza. Perché il fardello che noi europei stiamo da anni portando sulle spalle, il silenzio che circonda ciò che accade nel Mediterraneo, parlano di quanto “sia facile dimenticare o non voler guardare” (1). 

 

  1. Cristina Cattaneo, professoressa ordinaria di Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Milano e direttrice del LEBANOF (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense). Frase tratta dal libro “Naufraghi senza volto”, 2018.