
Roma (NEV), 9 dicembre 2019 – Circa 25.000 rappresentanti governativi, del settore privato, della comunità scientifica e della società civile di oltre 200 paesi stanno attualmente partecipando alla 25^ sessione della Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP25) in corso a Madrid, in Spagna, fino al 13 dicembre.
In un articolo sul sito dell’Associazione mondiale per la comunicazione cristiana (World Association for Christian Communication-WACC), Lorenzo Vargas e Amanda Soares scrivono: “Dovremmo tutti prestare maggiore attenzione alle conoscenze ecologiche tradizionali e indigene”, sia come forma di riconoscimento delle loro competenze per la resilienza climatica, sia come rettifica della violenza ecologica e coloniale a cui gli indigeni sono stati sottoposti per secoli.
Riguardo agli incendi boschivi ad esempio, riferiscono gli autori WACC, una recente ricerca pubblicata dal Global Center for Adaptation, ha sottolineato che: “I popoli indigeni hanno a lungo utilizzato incendi controllati a bassa intensità per gestire le colture e ridurre l’accumulo di combustibili – alberi infiammabili, erbe e cespugli – che causano incendi più grandi, più intensi e più pericolosi, come quelli che sono scoppiati negli Stati Uniti occidentali negli ultimi anni … L’uso del fuoco da parte del popolo Karuk è stato fondamentale per l’evoluzione della flora e della fauna della regione di Klamath, nel nord della California. Le sofisticate pratiche antincendio Karuk includono l’uso di fuochi frequenti a bassa intensità per ripristinare le praterie delle alci e conservare ghiande di tanoak e quercia nera. Gli incendi di questo tipo mantengono anche le praterie che forniscono materiali preziosi, quali vimini di qualità e il fumo che oscura il fiume Klamath, fa sì che le temperature dell’acqua si abbassino, avvantaggiando i pesci durante i caldi mesi di fine estate”.
Questo approccio, sostengono Vargas e Soares, è opposto a quello avuto dai coloni europei in Nord America, che consisteva principalmente nel reprimere il più possibile gli incendi. Nel tempo, questo ha trasformato diversi ecosistemi limitando la fertilità e rendendo le foreste più vulnerabili a incendi ad alta intensità difficili da controllare.
“La conoscenza ecologica tradizionale e indigena può dare un contributo significativo per affrontare i cambiamenti climatici” scrivono gli autori, che segnalano anche come il quinto rapporto di valutazione del gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) e l’accordo di Parigi abbiano riconosciuto l’importanza di queste conoscenze.
È sempre più chiaro che il cambiamento climatico non è più un problema futuro: gli ultimi cinque anni sono stati i più caldi mai registrati e le catastrofi naturali legate al clima, come gli incendi boschivi fuori controllo, sono sempre più frequenti. Secondo il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, “Il punto di non ritorno non è più all’orizzonte. È in vista e corre verso di noi”. La COP 25, a quasi quattro anni dalla firma dell’accordo di Parigi, deve fare i conti con gli impegni presi e con gli inadempimenti. I dati parlano di danni irreversibili e un aumento delle temperature di 3,2 gradi Celsius entro la fine del secolo, secondo il Programma ambientale delle Nazioni Unite.