Roma (NEV), 8 giugno 2021 – Riportiamo il testo della rubrica “Essere chiesa insieme”, andata in onda in chiusura del programma radiofonico di Radio1 RAI “Culto evangelico”, nella quale Paolo Naso riflette sulla storia di Saman Abbas.
Nei giorni scorsi abbiamo letto la storia di Saman Abbas, una ragazza pachistana che aveva rifiutato un matrimonio combinato dalla sua famiglia e che è scomparsa ormai da alcune settimane. I genitori e gli altri parenti sono ora indagati.
La scomparsa è avvenuta in provincia di Reggio Emilia, a Novellara, un paese di oltre diecimila abitanti la cui attività ruota attorno al settore agro-alimentare. E’ qui, nelle stalle e nei caseifici che producono uno dei formaggi più famosi al mondo, che lavora un consistente numero di immigrati africani e asiatici. Proprio a Novellara, di conseguenza, sorge anche un importante gurdwara, un tempio della religione Sikh che settimanalmente accoglie migliaia di fedeli di origine indiana.
Nonostante un’alta presenza di immigrati, in questa cittadina la convivenza è giudicata positiva, favorita da un clima generalmente accogliente e dalla soddisfazione di tanti imprenditori contenti del lavoro di immigrati che, come affermano pubblicamente, lavorano con precisione e serietà e che non di rado sono più affidabili degli italiani.
Eppure, proprio in un contesto complessivamente positivo e costruttivo dal punto di vista della convivenza interculturale, è accaduto un fatto così grave e drammatico come quello di Saman che, probabilmente, di fronte a un matrimonio imposto con la violenza ha gridato la sua angoscia e la sua disperazione, ma nessuno l’ha ascoltata. Perché? Com’è stato possibile? Cosa è mancato?
In estrema sintesi, potremmo dire: l’integrazione. La semplice convivenza multiculturale non basta a creare comunità coese e bene inserite nel tessuto sociale italiano. In questo senso, ciò che anni fa si chiamava multiculturalismo si è dimostrato un modello fallimentare. Tante piccole comunità ghettizzate, l’una accanto all’altra, incapaci di comunicare l’una con l’altra. Non creano coesione sociale, ma restano chiuse in se stesse e al loro interno, talvolta, si affermano pratiche tradizionali incompatibili con i principi e le norme di una moderna democrazia che, tra le altre cose, deve garantire l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne. Nessuna ragione di ordine culturale o religioso, insomma, può essere addotta per giustificare i matrimoni forzati, o violazioni di fondamentali diritti umani.
L’azione repressiva da parte dello stato non è sufficiente a contrastare questi abusi. Occorre l’impegno delle stesse comunità, siano etniche, culturali o religiose, che devono contrastare retaggi che violano i diritti delle persone. Sta a loro, alle comunità, promuovere un’azione educativa orientata all’educazione e al rispetto delle leggi e dei principi della convivenza democratica.
Per questo è importanti che nei giorni scorsi alcune organizzazioni islamiche abbiano dichiarato che pratiche come i matrimoni forzati non possono trovare alcuna giustificazione e pertanto siano assolutamente da condannare con una fatwa, un’ordinanza emanata dalle autorità religiose musulmane.
E’ un fatto importante che attesta come ormai in Italia esista una leadership di musulmani che vuole far valere i principi della legalità costituzionale e dell’integrazione anche tra quegli immigrati che pretenderebbero una giustificazione religiosa ai loro comportamenti violenti e disumani.
Ma forse, neanche questo è sufficiente. Occorre che le comunità etniche si aprano alla società in cui hanno scelto di vivere e, insieme agli italiani, si mettano in una prospettiva di integrazione. Come dimostra l’esperienza di tante chiese protestanti italiane, esse stesse possono diventare laboratori di integrazione nei quali vivere insieme la fede, da una parte, ma anche attrezzarsi alla convivenza interculturale nel rispetto delle leggi, dei diritti e dei doveri di cittadinanza. Non è una strada facile, né scontata, ma nel tempo è l’unica che può aiutare italiani e migrati a realizzare una vera e costruttiva convivenza.