Temptation island

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto da Barbara Battaglia

Foto di Marta Barabino

Lampedusa (NEV), 4 agosto 2021 – Non è facile resistere alla tentazione di raccontare Lampedusa solo coi numeri delle persone sbarcate, con le loro nazionalità, con qualche loro “storia”. Storie che raccontano mentre stanno per minuti – se va bene – o un po’ di più in piedi al molo Favaloro, o in quello commerciale, al caldo che fa a Lampedusa. Sbarcati dopo viaggi di un giorno o molti di più, dopo aver attraversato i chilometri che separano l’isola dalla Tunisia e dalla Libia, e in qualche mondo dal vero “Sud del mondo”.

Li aspettano le forze dell’ordine, il personale sanitario che in questo periodo effettua i tamponi e gli screening anti Covid del caso, e poche altre persone, membri di organizzazioni umanitarie per lo più, tra le quali gli operatori e le operatrici e i volontari e le volontarie di Mediterranean Hope, il programma migranti e rifugiati delle chiese protestanti italiane. Chiedono e ricevono acqua – da bere, ma anche per lavarsi la faccia o raffreddarsi un po’ la testa, dopo le ore di viaggio in mare – , un succo di frutta e un peluche se sono bambini, un sorriso da dietro la mascherina.

Ci sono due soli bagni pubblici al molo, in condizioni pessime, esce un filo d’acqua dai rubinetti. Arrivano anche 400 persone, a volte, dopo ore in mare su gommoni, barchini o imbarcazioni che non vediamo. Immaginiamo le condizioni di questi tragitti. Andranno in bagno all’hotspot dell’isola, il centro di primissima accoglienza dove si identificano i migranti, che ha una capacità di 200 persone e ne arriva ad “accogliere” più di mille, in questi giorni torridi.

Anche l’isola dei turisti è piena di gente. Se fosse l’hotspot, diremmo che è “al collasso”. Salta la corrente, a volte. Via Roma, la via centrale dello struscio by night, è calpestata da migliaia di vacanzieri. Auto, motorini, ressa.

Li vedono i migranti? Li vogliono vedere? C’è chi si informa e va al cimitero, con gli operatori di Mediterranean Hope e il Forum Lampedusa solidale, una rete di cittadini che si impegna per l’accoglienza, a visitare le tombe delle persone che al molo sono arrivate morte. Di quelle di cui si sa il nome, di quelle a cui si è potuto dare un volto, che sono pochissime rispetto a tutti i corpi dispersi, spariti, invisibili ormai.

Non è facile resistere alla tentazione di raccontare il gap tra un mondo di gente giustamente in vacanza, dopo un anno di pandemia, in cerca di un po’ di bellezza, forse, e un altro mondo, a due passi da questo, di persone che non hanno nulla da perdere, forse.

La banalità della banalizzazione.

Non c’è possibilità di (un falò di) confronto tra questi due “mondi” così lontani.

Al cimitero di questa piccola isola c’è una stele, con un aforisma dal “Mestiere di Vivere” – il diario, e dunque il libro forse più intimo – di Cesare Pavese: “Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò”.