Gaza, vista dal Libano

Lo sguardo di Luciano Griso, medico, responsabile del progetto Medical Hope, su quanto sta accadendo tra Israele e Palestina.

foto di Levi Meir Clancy, unsplash

Roma, (NEV), 10 ottobre 2023 – di Luciano Griso* – Solo la falsa coscienza e l’ipocrisia delle Cancellerie Occidentali possono spiegare la “sorpresa” con cui queste ultime hanno accolto la notizia della operazione militare di Hamas.
Certo, il numero di razzi impiegati, l’assalto alle barriere che circondano Gaza, la capacità militare dimostrata dal movimento islamista segnano un punto di svolta nel conflitto israelo-palestinese.
Ma parlare di sorpresa è del tutto improprio. Niente in questa operazione è sorprendente o ingiustificato.
Stiamo parlando di Gaza, una striscia di terra di 40×10 km, circondata da barriere e filo spinato in cui sono ammassati oltre due milioni di persone e che da 17 anni è serrata ermeticamente e presidiata dall’esercito israeliano come una prigione. Il blocco imposto da Israele riguarda ogni aspetto della vita quotidiana degli abitanti: dall’erogazione dell’energia elettrica (adesso bloccata), alle forniture di gasolio, al cibo (accuratamente controllato perché la quota calorica pro capite venga tenuta bassa – secondo UNICEF il 45% degli abitanti è sottonutrito), alle medicine ed alle forniture di materiale per gli ospedali. Sono le banche israeliane che versano, e che bloccano su indicazione del governo, alle
Autorità di Gaza gli aiuti economici provenienti dall’estero.
Non c’è acqua potabile a Gaza, bisogna acquistarla e se siete in ambulanza ed avete bisogno di un ricovero urgente in un Ospedale attrezzato la vostra vita dipenderà dall’umore di chi gestisce il checkpoint in uscita, può ritardare il passaggio per ore o non concedere il permesso. Solo ieri una signora scappata da Gaza via Giordania mi diceva che la sorella, anni fa, è morta in ambulanza, bloccata al valico di Erez.
Si potrebbero elencare molte altre situazioni. L’impressione di essere chiusi in una gabbia genera un’alta incidenza di disturbi mentali, specie fra i giovani, a cui è negata la speranza di un futuro: studiano, si laureano e poi niente succede: la percentuale di giovani disoccupati a Gaza, secondo l’Unrwa (l’Agenzia ONU per i Rifugiati), è superiore al 60%.
Quindi nessuna sorpresa, Hamas ha dato voce alla esasperazione e disperazione di un popolo abbandonato da tutti e senza futuro.
E’ per questo, penso, che il 7 ottobre si pone come un punto nella storia del Medio Oriente, che segna una fine ed un nuovo inizio.
La fine del mito della potenza, della preveggenza, della onnipotenza dei Servizi di Sicurezza israeliani, incapaci di prevedere ciò che è avvenuto e colti di sorpresa da… deltaplani trainati da camionette, oltreché dai cinquemila razzi sparati.
Il nuovo inizio è quello del prevalere di Hamas sulle altre Organizzazioni palestinesi (Autorità palestinese compresa) ed il suo porsi come unico punto di riferimento per la popolazione ma anche come presenza imprescindibile per qualunque iniziativa volta ad affrontare seriamente la questione palestinese.
Sia ben chiaro, le perplessità su questa organizzazione sono ampie.
Islamista, retriva sul piano dei diritti, governa Gaza con pugno di ferro, tramite la forza e la propaganda. Le violenze perpetrate sui civili resteranno a lungo presenti nella memoria di noi spettatori occidentali.
Teniamo però presente che a questa contestazione, non solo Hamas ma la maggior parte dei Palestinesi ed anche della opinione pubblica araba replicano che l’Occidente si accorge della violenza solo quando colpisce in casa o i suoi amici. Della violenza altrettanto feroce usata contro la popolazione civile palestinese dal 1948 ad oggi nessuno si accorge.
La perfetta esecuzione dell’offensiva da parte di Hamas ha suscitato negli Osservatori una questione: Hamas ha programmato tutto da sola?
Da molte parti si sottolineano infatti gli stretti rapporti con il movimento di Hezbollah in Libano e quello di tutt’e due con l’Iran.
E’ un fatto che i massimi dirigenti di Hamas trovano rifugio in Libano e quindi non è una fantasia ipotizzare un coordinamento nella preparazione dell’operazione militare.
Il timore è che ciò possa portare alla apertura di un secondo fronte al confine israelo-libanese che è  presidiato (oltreché dall’Unifil) da Hezbollah. Ci sarà un nuovo confronto fra Hezbollah ed Israele? Il Libano sta col fiato sospeso.
Bruciano ancora tanto le ferite delle precedenti e dell’ultima invasione israeliana nel territorio libanese.
Tutti studiano l’atteggiamento di Hezbollah che, almeno fino al momento, non sembra intenzionato ad effettuare importanti manovre militari, eccetto qualcuna di disturbo. Gli scontri al confine sembrano infatti dovuti ad infiltrazioni palestinesi e non a militanti di Hezbollah.
Il Libano vive una situazione molto complessa, stretto fra crisi economica, istituzionale e povertà sempre crescente. I partiti non riescono ad accordarsi sul nome del nuovo Presidente della Repubblica il cui mandato è scaduto ad ottobre scorso mentre Hezbollah, su pressioni occidentali e dell’Arabia Saudita, è sottoposto ad una sorta di “conventio ad escludendum”. Se trascinasse il Paese in una nuova guerra contro Israele avrebbe buona parte del Paese contro.
Nei campi, intanto, i Palestinesi festeggiano l’offensiva di Hamas che viene vissuta come una rivincita di 75 anni di umiliazioni, violenze ed espropriazioni da parte dell’Occupante israeliano. Non dimentichiamo che nei campi libanesi aperti già dopo il 1948 (anno di fondazione dello Stato di Israele) vive la terza generazione di quegli sfollati, senza diritti,
senza nazionalità, senza passaporto, senza lavoro.
L’offensiva di Hamas ha come cancellato le divisioni, antiche e violente, fra Fatah, Hamas, Fronte popolare ed altri, unificati per una volta e galvanizzati dalle imprese di questi giorni.
Le manifestazioni si sono susseguite l’una all’altra e si sono svolte non solo nei campi ma anche in città come Beirut e Tripoli. Vedremo l’evoluzione della situazione. Al momento la situazione è tranquilla e non vi sono per noi segnali di allarme.

*medico, responsabile del progetto Medical Hope in Libano, nell’ambito dell’iniziativa dei corridoi umanitari realizzati dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia