Partenza per un sogno

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). O dalle volontarie e dai volontari che ci accompagnano per periodi più o meno lunghi. Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto da Paola Spallarossa, la mamma di una delle nostre operatrici, Marta Barabino

Roma (NEV), 17 settembre 2021 – Lampedusa.

Tante volte l’ho sognata, sperata, immaginata. In prima linea. Quello che da sempre avrei voluto vivere, fosse Africa, Sud America, Nepal, India.

E mi ritrovo, quasi per caso, in Italia.

Italia porta d’Europa. Italia che accoglie. Volente o no. Prima terra dopo un mare di dolore. Terra che provoca discussioni, polemiche, desideri, rimpianti.

E io lì, grazie a una figlia che ha scelto di mettersi dalla parte degli uomini. Di tutti gli uomini. E le donne, e i bambini che cercano una vita degna di questo nome. E chissà cosa troveranno. Fatiche, rifiuti, chiusure. Indifferenza, cattiveria, ignoranza.

Ma anche sorrisi, amore, carezze, sguardi di comprensione e affetto.

Avrò l’onore di essere tra questi.

SCRIVERE

Ci avevo pensato, ma poi non ho portato carta e penna, e per me scrivere su una tastiera non è lo stesso. Ma sono qui, e non posso esimermi dal farlo, o rinviare.

Mi trovo nel punto più in basso dell’isola, il punto più a sud, oltre la porta d’Europa. Poi il continente cambia, almeno nel nome e nelle giurisdizioni umane.

Guardo questo mare, meraviglioso e trasparente, e penso a chi è là sotto e, a questo punto preciso dove sono io, non è mai arrivato.

Magari per un soffio. Quello stesso soffio che aveva spinto ciascuno a partire, da quel punto di partenza e di non ritorno che li mette in mare. Nonostante tutto e tutti.

E penso anche a chi invece da questa parte è arrivato.

Alle sue aspettative, alle sue richieste, ai suoi sì e ai suoi no. Quelli dati e quelli ricevuti.

Faccio fatica a immaginare per loro una vita serena, senza troppe difficoltà, da stranieri in una terra nuova, che avrebbe volentieri fatto a meno di loro. E nella quale avrebbero fatto volentieri a meno di spostarsi.

Ho avuto il privilegio di poterli accogliere e guardare negli occhi. Arrossati dal sole, dal vento, dal sale e forse dalle lacrime. E incrociare uno di quegli sguardi regala una prospettiva diversa per sempre.

Incontro tanti adolescenti, all’incirca l’età del più piccolo dei miei figli. L’età in cui il mondo ti si spalanca davanti e tutto è ancora possibile. Paura nei loro occhi, e disincanto per tanti di loro. E a quel punto ad arrossarsi sono i miei di occhi, per quel senso di ingiustizia che si fa strada e non può star più chiuso dentro.

Quanto tempo dovrà passare perché si possa partire e arrivare in pace senza bisogno di tutto questo? I cambiamenti hanno bisogno di tempo, è vero. E se sono epocali ancora di più. Ma ogni vita che si perde in mare chiede urgenza, chiede immediatezza.

E’ la sfida di questo tempo. Accoglierla ci renderà più ricchi. E soprattutto più umani.

Sapevo che arrivare su quest’isola mi avrebbe regalato lo sguardo dalla frontiera che da lontano, per quanto ascoltato o testimoniato da chi lo vive da vicino, si può solo immaginare. E percepisco la sensazione prepotente che da qui non ci si possa staccare, che resti dentro quel mal d’Africa (perché di terra africana si tratta, in fondo) che ci si porterà dentro come una nostalgia e un’urgenza di ritorno per sempre.

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Scrivere urge ogni tanto.

Senti dentro la necessità di farlo, per lasciar uscire quello che a voce forse non diresti.

Urge lasciar uscire il senso di ingiustizia che provi guardandoli negli occhi e incontrando quegli sguardi. Che dicono grazie, va tutto bene. E forse chiedono perché.

Anch’io chiedo perché. Di questo rischio, di questa scommessa, di questa traversata pericolosa che forse li porterà a una vita migliore. O forse no.

Li guardo, e sento torcersi lo stomaco per l’inadeguatezza e il dolore.

Li guardo e non posso non pensare che lasciar andare un figlio minorenne, da solo, con un telefono in mano e (forse) un paio di ciabatte ai piedi, non è umano.

Per una mamma certamente non lo è.

EMOZIONI

Quando li guardi, sorridi e sei immediatamente ricambiato.

Quando ti dicono “Ciao mamma”.

Quando li saluti sul pulmino diretti all’hotspot e si sporgono per salutarti o mandarti baci in punta di dita.

Quando, mentre partono, cerchi lo sguardo di qualcuno e puntualmente lo trovi.

Quando, appena scesi dalla barca, li accogli con “Bienvenue, ça va?” e la risposta è immancabilmente “ça va”.

Quando ti salutano sbracciandosi già dalla barca.

Quando, bagnati e affaticati, attendono. E attendono. E attendono. Senza scomporsi.

Quando lo sguardo si scioglie in riconoscenza.

Quando gli occhi guardano ma non vedono. Persi altrove, in quello che sarà. O in quello che non è stato.

Quando torni a casa, ma il tuo cuore è fermo su quel molo.

Inshallah.