La spiritualità incarnata e la chiesa come luogo che accoglie. Intervista a Luca Maria Negro

Alla vigilia dell'elezione del nuovo presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, un bilancio del mandato del pastore battista Luca Maria Negro, che, alla domanda sul suo futuro, risponde: "Mi dedicherò alla liturgia, a trovare modi per rendere più vivo il nostro culto, mi interessa molto la ricerca di una nuova spiritualità. Una ricerca che è in continuità con quanto fatto in questi anni perchè la spiritualità è connessa all'impegno per la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato"

Luca Maria Negro

Roma (NEV), 29 ottobre 2021 – Domani sarà eletto un nuovo Presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Abbiamo intervistato il presidente uscente, Luca Maria Negro, pastore battista che dal 2015 a oggi ha guidato la federazione delle chiese protestanti, per fare un bilancio del suo mandato, sia a livello pastorale che umano.

Cominciamo dall’esperienza del programma rifugiati e migranti, Mediterranean Hope. Quali sono state le soddisfazioni e quali i momenti più difficili di questo progetto?

La targa ricevuta a Lampedusa da Luca Maria Negro

A Lampedusa ho ricevuto due regali: il primo è una bellissima targa, che mi hanno donato gli operatori e le operatrici, un dono che mi ha commosso. L’altro regalo è stata la possibilità di andare al Molo Favaloro nel corso di uno sbarco e vedere coi miei occhi qual è la situazione, nei momenti degli approdi, che io trovo abbastanza disumana e disumanizzante per le persone che arrivano dal Mediterraneo, al di là dei volontari e degli operatori presenti, che fanno del loro meglio per accogliere con un sorriso i migranti.

Toccare con mano cose questo genere di fatti è una cosa diversa dal vederli in tv, perchè siamo in qualche modo ormai assuefatti, purtroppo, alla visione di immagini disumane.
Sono anche stato diverse volte all’arrivo dei corridoi umanitari. Ogni volta che arriva un gruppo dal Libano mi commuovo. E’ certamente un’esperienza diversa da quella un po’ angosciante di chi cerca di dare il benvenuto a chi arriva su un barcone, perchè i beneficiari dei corridoi umanitari sono persone che arrivano sorridenti, con i loro bagagli, ma è ogni volta un’esperienza forte essere messi di fronte alla felicità di chi è riuscito a fuggire da dove aveva bisogno di scappare.
Dunque questa esperienza che ho potuto fare a Lampedusa, poche settimane fa, alla fine del mio mandato, è una conferma di quello che abbiamo cercato di fare come federazione,
non solo attraverso i corridoi umanitari, attraverso tutte le altre forme di testimonianza che coinvolgono i migranti: dalla Casa delle Culture di Scicli a Rosarno, fino a Bihac in Bosnia, in Libano…Testimoniare la nostra fede sulle frontiere.

Quanto ai momenti più difficili, per me è stata la responsabilità di giovani e meno giovani – gli operatori che lavorano in contesti anche molto difficili – che si spendono su questo fronte che a volte fa tremare i polsi.

Uno dei concetti-chiave del suo mandato è il tema biblico della filoxenia, l’amore per lo straniero. Pensa sia ancora attuale?

Uno dei testi biblici che ho più usato in questi anni è la parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-37). C’è un elemento che mi sta molto a cuore ed è il fatto che il buon samaritano porta quest’uomo ferito che soccorre in una locanda, pandocheion, un luogo “che accoglie tutti”: questa è la chiesa, un luogo che deve accogliere tutti.
 
Vi è poi il tema della filoxenia, dalla lettera agli ebrei, quella ospitalità – alcuni senza saperlo hanno ospitato angeli – che è letteralmente amore per lo xenos, di cui parla nel Nuovo Testamento il capitolo 13 della Lettera agli Ebrei e che porta benedizione. Una parola contrapposta alla xenofobia di Sodoma (Genesi 18) che porta alla morte, dove il peccato non è l’omosessualità, come si pensa, ma la mancanza di ospitalità.

Penso che dovremmo riscoprire queste pagine bibliche. I populisti, gli xenofobi, chi incita all’odio verso lo straniero, sono davvero a un crocevia: la via della benedizione e quella della maledizione.

Come valuta il lavoro da lei svolto insieme al Consiglio e alle chiese federate?

Il tentativo è stato quello di far sentire protagoniste tutte le componenti della Federazione. Ad esempio, per la prima volta nella storia, abbiamo avuto una vicepresidente luterana, Christiane Groeben. Abbiamo coinvolto in posizioni di responsabilità le diverse chiese, come nella conduzione dell’Assemblea del 2016, con il Maggiore David Cavanagh dell’Esercito della Salvezza. E nel 2019 con Giuseppina Mauro, della Chiesa apostolica italiana.

Abbiamo, inoltre, cercato di valorizzare tutte le esperienze. Coltivando un dialogo anche con le chiese non federate, aprendo la partecipazione alle commissioni, insieme a fratelli e sorelle avventisti o dell’area pentecostale. A causa del covid non abbiamo potuto portare a termine il progetto di un incontro con tutte le chiese evangeliche, federate e non. Tuttavia la Federazione resta un osservatorio importante per capire cosa avviene in questo ampio mondo evangelico. Penso che non dobbiamo essere eccessivamente ottimisti né eccessivamente disattenti. Siamo in un percorso. La tappa dei 500 anni della Riforma, nel 2017, poteva avere una partecipazione più larga. AL tempo stesso, si moltiplicano le donne pastore in queste chiese.  Sembrava una delle caratteristiche esclusive del cosiddetto protestantesimo storico. Il fatto che avvenga ora in contesti dove alcuni ritengono il ministerio femminile distante dal dettato biblico, è significativo.

Quale messaggio spirituale, o pastorale, avrebbe piacere di condividere con chi presiederà la Federazione dopo di lei?

Riprenderei il tema della meditazione che chiuderà la tavola rotonda di sabato 30 ottobre. A partire dal testo biblico di Genesi, 13 quando Abramo e Lot si separano. Dopo una contesa sulle greggi, Abramo e Lot cercano una separazione che sia onorevole e pacifica. La pianura è vasta, e sembrerebbe esserci spazio per tutti. Eppure questa scelta, nel tempo, crea conseguenze molto gravi. Da questa separazione il popolo di Abramo eredita come cugini i moabiti e gli ammoniti, che diventeranno acerrimi nemici di Israele. Non possiamo riscrivere questo racconto, ovviamente. Esso testimonia che ci si può anche separare da fratelli, ma dopo un po’ ci si può rincontrare da nemici. Questa vicenda biblica mi fa venire in mente una tentazione di oggi delle chiese, in generale. Siamo passati da un momento di grande entusiasmo ecumenico, per poi piano piano tornare indietro. Lo abbiamo osservato nel dialogo tra cattolici, protestanti e ortodossi, ma anche all’interno del protestantesimo. Viviamo un tempo di ossessione identitaria. A causa delle insicurezze a livello mondiale,  o per altri vari motivi. Noi pensiamo di essere esenti, come chiese, da questa ossessione. Anzi, ci opponiamo a chi fa dell’identità nazionale, o razziale, del sovranismo o del populismo, una bandiera. Ma siamo davvero esenti da questo peccato dell’ossessione identitaria? Forse dovremmo continuare con più forza di prima a camminare insieme, cosa che Abramo e Lot non hanno fatto. Ecco, come messaggio spirituale vorrei che lo spirito federativo, che è anche ecumenico, non si affievolisse, non si indebolisse, solo perché è difficile. Spero che si possa ritrovare il vigore di quel pathos ecumenico che è parte della nostra storia. Siamo stati pionieri, ad esempio nel percorso battista, metodista e valdese (BMV). Altrove sono andati più avanti, ad esempio in Francia, dove pochi anni fa è nata la Chiesa protestante unita, che raccoglie tutte le denominazioni riformate.

Secondo lei, c’è spazio in Italia per le cosiddette “fresh expressions”, cioè modelli di utilizzo alternativo delle chiese e dei locali normalmente destinati ad attività di culto?

Ritengo che le comunità non debbano essere gelose dei loro spazi. Sono proprio reduce da un incontro con la Commissione permanente per la formazione pastorale, dove abbiamo parlato anche di questo. Bisognerebbe cercare non solo di rinnovare il culto tradizionale, ma cercare nuove espressioni. Non solo nei templi. Ogni luogo può essere buono per lo sviluppo di momenti di spiritualità, magari in piccoli gruppi, dove ciascuno si possa sentire libero e attivo nell’esprimere la propria fede.

Cosa farà adesso, terminato il suo mandato, quali impegni la aspettano? Quali sono i suoi progetti futuri?

Continuo a fare il pastore in due comunità e sto già lavorando a come rendere più vivo il nostro culto, le cui forme rischiano di essere statiche. La liturgia e la spiritualità, secondo me, sono collegate all’impegno sulla giustizia e sul creato. Penso, ad esempio, alla scommessa della comunità ecumenica di Iona, in Scozia. Che è diventato un polo che mette insieme musica e azione. (La Iona Community che si ispira al cristianesimo alto medievale delle isole britanniche. Impegnata in attività sociali e solidali, Iona opera in diverse città all’insegna di una spiritualità in armonia con la natura, per la pace e la giustizia sociale, ndr). Come Dorothee Sölle, penso a una preghiera politica come spiritualità incarnata”.