Aspettando Moussa

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). O dalle volontarie e dai volontari che accompagnano per periodi più o meno lunghi il percorso di MH. Oggi “Lo sguardo” proviene dalla Grecia ed è stato scritto da Alessia Melillo

Roma (NEV), 10 giugno 2022 – Al nostro arrivo, la Grecia ci circonda in un caldo abbraccio. Alle 9 del mattino l’asfalto della pista è già rovente, il cielo azzurro e la curiosità per i nuovi incontri e quello che accadrà nei prossimi giorni mi fanno battere forte il cuore.Il nutrito gruppo di avvocati/e e operatori e operatrici legali si raduna per il primo meeting ad Atene in cui stabiliremo i criteri e i temi del sopralluogo che i diversi gruppi sparsi sul territorio greco faranno per l’elaborazione di un report finale.Prima di arrivare in Grecia abbiamo contattato e pianificato degli incontri con organizzazioni e associazioni che sapevamo essere presenti e operative sull’isola. Dopo una lunga notte di viaggio in traghetto finalmente io e le 10 donne del mio gruppo approdiamo sull’isola di Chios. Nell’aria un profumo di spezie evoca paesi lontani ma in realtà la Turchia è lì, a sole 4 miglia e si vede nitidamente a occhio nudo. Non appena arrivate al porto notiamo un’imbarcazione della Guardia Costiera italiana e due di quella greca.

Abbiamo finalmente raggiunto la nostra isola e mi aspetto di vedere dei migranti e delle migranti, incontrarli/e, ascoltare le storie che vorranno condividere con noi, documentare il nostro incontro con qualche foto. Ma di loro non c’è traccia. Se ne percepisce solo l’assenza. Ce lo confermano gli esponenti di un partito politico, le attiviste e le ong che incontriamo nei giorni a venire.

La fitta agenda di appuntamenti inizia dall’incontro con Offene Arme (Braccia Aperte, in italiano), organizzazione che da anni si occupa di dare aiuti food e non food ai migranti e alle migranti presenti sull’isola. Visitiamo il loro negozio in cui le persone possono prendere abiti, rigorosamente divisi per taglie e categorie, scarpe e prodotti per l’igiene.

Ci sono volontari e volontarie da tutta Europa, anche due persone italiane; non ci sono, invece, persone di origine greca.

Ormai sono poche le/i migranti che vengono, il magazzino è ben fornito ma l’isola è vuota. Molte associazioni non hanno più motivo di restare e chiudono le sedi locali.

Chiediamo il perché della assenza e la responsabile sorride: si tratta dei respingimenti, i pushbacks che non permettono più ai migranti e alle migranti di arrivare a Chios.

Ci dicono che solo pochi giorni fa, il 23 maggio, è stato segnalato un respingimento di 590 persone suddivise in 9 barche, che sarebbero state rimandate in acque turche.

Le difficoltà del lavoro sull’isola ci vengono confermate dal responsabile di Metadrasi, organizzazione che si occupa di minori dal 2016. Ci racconta di alcuni genitori, medici e avvocate greche che hanno protestato per l’inserimento di un bambino straniero di 5 anni alla scuola materna.

Anche il responsabile medico della ong spagnola SMH (Salvamento Maritimo Humanitario) ci concede un incontro come aveva già fatto con altri colleghi e colleghe nel 2016. Afferma che è l’unica ong rimasta sull’isola ad occuparsi di salute. Ribadisce che i respingimenti a Chios sono iniziati nel 2020.

In seguito alla nostra richiesta ufficiale di visitare il campo di Vial, tre di noi sono state autorizzate ad entrare e hanno incontrato il generale, direttore del centro, che ha mostrato loro parte della struttura, illustrando attività e progetti.

Si tratta di un RIC (reception and identification centre) nel mezzo dell’isola, lontano dal centro abitato, tra gli ulivi.

Ha una capacità di 1600 posti ma in passato ha accolto anche 10.000 persone. Ora tante sezioni sono state chiuse perché ci sono solo 130 persone all’interno.

Non ero tra le tre operatrici che potevano visitare il centro. Per non fare torto a nessuna, abbiamo deciso di estrarre a sorte, così ho fatto un giro lì intorno. La polizia presidiava l’ingresso del campo e, tutto intorno, si vedevano reti e filo spinato. Vicino ad alcuni container un po’ più defilati e colorati si stagliava un tappeto di erba sintetica dove i bambini e le bambine che uscivano dalla minuscola scuola potevano giocare qualche minuto sotto il sole rovente ed il cielo di un azzurro accecante. Poco lontano mi è balzata agli occhi una piccola scritta nera di tre lettere seguita da un cuore: “mom”. Ho pensato a quanto potevano significare quelle tre lettere nere sul cemento per chi le aveva scritte. Un grido silenzioso ma doloroso, figlio di una nostalgia che attanaglia e paralizza, spaventa e preoccupa. Mi sono sentita oltremodo fortunata ad avere due figli a casa al sicuro e dai quali poter tornare pochi giorni dopo.

Andando via da Vial, nel campo da calcio adiacente l’ingresso del Ric, abbiamo notato dei ragazzi seduti all’ombra. Sfacciatamente ci siamo dirette verso di loro spiegando chi fossimo e chiedendo loro se avessero voglia di rispondere a qualche domanda.

Moussa, ventunenne del Gambia, si è reso subito disponibile e ci ha detto che ci avrebbe raggiunte in centro.

In attesa del nostro prezioso appuntamento con Moussa riusciamo ad intervistare il coordinatore dell’unica ong autorizzata ad operare al Ric, occupandosi di minori. Ci racconta della pessima qualità del cibo che viene offerto a quelle persone.

Sabato mattina alle 10, pronte per l’incontro con Moussa, riceviamo un suo messaggio in cui ci chiede di posticipare alle 12. Riorganizziamo l’agenda degli appuntamenti e alle 12 in punto siamo da “Chez moi” per la tanto attesa intervista. Moussa non si presenta. Il suo telefono non ha campo. Lo attendiamo per quasi un’ora di fronte ad un mare calmo e azzurro, tentando di chiamarlo e scrivendogli, ma niente, di lui nessuna traccia. Sconfitte decidiamo di andarcene al mare, un mare bellissimo: celeste,  blu e verde circondato da colline e alberi le cui fronde sventolano nel vento caldo su una spiaggia di sabbia bianca e sassi. Immagini da cartolina, ma noi non possiamo non pensare a Moussa e ci chiediamo perché non sia venuto.

Questo sono stati i tre giorni a Chios. La ricerca di una assenza, quella dei e delle richiedenti asilo cui non è permesso arrivare in Grecia, quella delle ong che non possono più lavorare sull’isola, quella dell’umanità che preferisce non vedere e ignorare che il problema esiste ed è grande come la voragine che si crea nel nostro cuore, come il bel mare Egeo in cui vengono respinti e respinte, come il cielo che dall’alto vede tutto l’orrore di cui siamo capaci.

Questo è stato il sopralluogo a Chios: l’attesa di Moussa che non è mai arrivato lasciando aperti tanti interrogativi.

L’attesa di Moussa ci ha fatto anche un regalo: rafforzare, senza presunzione, la consapevolezza che questo è il lavoro che vogliamo fare, questo è quello che vogliamo studiare e approfondire perché non possiamo e non vogliamo più nasconderci fingendo che vada tutto bene mentre le nostre sorelle i nostri fratelli annegano nel mare dell’egoismo.

L’attesa di Moussa ci ha regalato la nascita di nuove e profonde relazioni tra donne accomunate dallo stesso mestiere e dal desiderio di continuare a raccogliere e documentare queste storie per denunciarne l’assurdità e non esserne complici.

Così siamo rimaste: aspettando Moussa nella speranza che, anche se non abbiamo potuto incontrarlo, da questa assenza lui possa aver percepito il nostro abbraccio e l’invito a non arrendersi e ad arrivare dove i suoi sogni lo condurranno.


Alessia Melillo è un’operatrice di Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Ha partecipato negli scorsi giorni ad un viaggio in Grecia con ASGI e Spazi Circolari, di avvocati/e e operatori/rici legali. La delegazione era composta da circa 60 persone divise in gruppi da 10 partecipanti, ed è stata ad Atene, Chios, Samos, Kos, Evros e Salonicco, per un sopralluogo sulla situazione dei/lle migranti in Grecia.