Coronavirus. Milano, città fantasma e chiese “senza corpo”

Intervista a Daniela Di Carlo, pastora della chiesa valdese di via Francesco Sforza. L’esito dell’epidemia “dipende anche dalle scelte etiche e politiche delle persone. Non possiamo addossare a Dio una responsabilità che non gli compete”

Foto di Daniela Di Carlo

Roma (NEV), 9 marzo 2020 – Da Milano, zona rossa a seguito dell’ordinanza dell’8 marzo per la prevenzione e la gestione dell’emergenza epidemiologica da coronavirus (COVID2019), Daniela Di Carlo, pastora della chiesa valdese di via Francesco Sforza, racconta all’Agenzia NEV come sta vivendo l’isolamento.

Com’è la situazione a Milano?

La città è deserta e fa veramente impressione. Pochissime persone sugli autobus, sulla metro c’è sempre la possibilità di sedersi a distanza dagli altri, le piazze sono vuote, piazza del Duomo è vuota. Siamo abituati a vedere lunghe file nelle biglietterie di cinema e musei, ora c’è lo spaesamento di essere nella stessa città, ma senza le persone.

Non si sente più parlare in diverse lingue, cosa che mi è sempre piaciuta di Milano, molti negozi sono chiusi.

Sembra una città fantasma.

Le chiese sono chiuse. Come ha reagito la comunità?

La chiesa manca, mancano le persone. Abbiamo una chat privata, aperta già tempo fa, nella quale ci mandiamo dei messaggi per rafforzare il legame gli uni gli altri. Quando scendo in chiesa e la vedo vuota, senza la musica dell’organo, senza le voci, mi fa effetto. Ti rendi conto che la chiesa è fatta dalla gente e che le mura, non importa quanto belle, non sono nulla rispetto al calore e al potere che la comunità ti dà quando è presente.

Le visite pastorali sono sospese o continuano? Come funziona la cura d’anime in questi tempi di isolamento, auto-isolamento e indeterminatezza?

Stiamo cercando comunque di avere cura gli uni delle altre. Con i pastori e le pastore di Milano, inizialmente, ci siamo suddivisi le visite, ma stamattina in riunione abbiamo deciso di sospenderle. Alcuni hanno l’influenza, o non stanno bene o hanno paura di ricevere visita.

Tutto, anche le preghiere, si svolge attraverso la tecnologia, su whatsapp, su facebook, su skype. E poi al telefono, che rimane un veicolo importante soprattutto per le generazioni più anziane ed è un valido strumento di “presenza”.

Mi fa impressione, normalmente ci si prende per mano e si prega insieme. Senza contatto un po’ mi turba, ma resta la dimensione spirituale, senza corpo.

Rischio percepito e rischio reale. Secondo lei le istituzioni e la popolazione sono allineate?

Le istituzioni hanno fatto bene a prendere alcuni provvedimenti. In certi casi le persone non hanno valutato con razionalità, e sono scappate per paura del contagio. Noi abbiamo anche diversi medici, nella chiesa, che ci invitano alla prudenza. Loro per primi hanno detto di ridurre e poi di sospendere ciò che può procurare dei contatti, non tanto e non solo per non essere infettati, perché chi è in salute ce la può fare, ma per non aggravare la situazione negli ospedali.

Negli ospedali dove l’emergenza è in atto, tutto passa in secondo piano e si trasformano i reparti per chi è contagiato e necessita di cure. Bisogna prendere sul serio la situazione.

Il contagio esiste, anche se è uno degli scenari ai quali nessuno avrebbe mai pensato. Si sospettava una serie di attentati terroristici che avrebbero potuto mettere in discussione la sicurezza. Invece è arrivato un virus che mette in ginocchio l’economia, la società, e le relazioni. In fondo, avevamo una fiducia incondizionata nella medicina e siamo stati colti impreparati.

Dove si trova Dio, in tutto questo?

Mentre preparavamo l’ultima predicazione dell’8 marzo, disponibile su youtube, abbiamo discusso su due atteggiamenti opposti abbastanza diffusi, atteggiamenti messi in atto anche fra membri di chiesa.

Da un lato, alcuni sentono che l’umanità è in un peccato troppo grande e quindi sentono l’epidemia come una punizione. Altri pensano che non ci succederà niente, perché Dio è dalla nostra parte.

Quello che so è che sicuramente, con Dio, abbiamo strumenti per dominare la paura, ma siamo anche di fronte alla scelta di compiere azioni responsabili per diminuire il rischio, sapendo che Dio è al nostro fianco nella lotta, nella tensione fra essere salvi ed essere contagiati, fra paura e tranquillità, insomma nel mantenerci in equilibrio fra tutte le emozioni. Ai parrocchiani e alle parrocchiane mi sentirei di dire che non è colpa di Dio, ma nemmeno che, credendo in Dio, non si possa essere contagiati, perché questo dipende anche dalle scelte etiche e politiche delle persone. Non possiamo addossare a Dio una responsabilità che non gli compete.