Roma (NEV), 23 novembre 2020 – Piero Stefani è teologo, esegeta, presidente del Segretariato attività ecumeniche (SAE) e, fra l’altro, consigliere dell’associazione laica di cultura biblica “Biblia”. L’Agenzia NEV lo ha interpellato per proseguire il dibattito intorno ai temi trattati nel libro “Credenti in bilico. La fede di fronte alle fratture dell’esistenza”, edito da Claudiana, a cura di Sabina Baral e Alberto Corsani.
Per partecipare alla discussione, potete inviare i vostri commenti a nev@fcei.it – i contributi più interessanti saranno oggetto di ulteriori approfondimenti.
Intervista al teologo Piero Stefani
A proposito del libro “Credenti in bilico”, la co-curatrice Sabina Baral parla di “uno sguardo poetizzante nel dire Dio oggi“, sostenendo che l’estetica possa essere di aiuto alla teologia. Cosa ne pensa?
Comincio citando un passo di Boccaccio proveniente dal Trattatello in laude di Dante «Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa sola si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico di più che la teologia niun’altra cosa è che una poesia di Dio». Va da sé che la citazione andrebbe compresa nel suo contesto. In particolare per «teologia» qui si indica, in effetti, la Scrittura e per «poesia» il ricorso a un linguaggio simbolico. Con tutto ciò resta saldo che una teologia degna di questo nome è tale solo se fa proprio un linguaggio capace di alludere all’«Altro». La poesia e l’arte sono grandi quando i loro linguaggi sono da un lato rigorosi e precisi sorretti dallo studio e dalla tecnica e dall’altro costantemente in grado di rimandare all’«altro da sé», in questo senso sono sempre simbolici. Su questa riva si situa l’affinità più profonda con il pensare teologico, oserei dire anche con il vivere teologico. Quando non cede a qualche forma di narcisismo, non vi è nulla di meno possessivo del linguaggio poetico e artistico. Esso è contraddistinto da un’apertura all’«altro» che va mantenuta fino all’ultimo. Al riguardo si devono a Michelangelo due versi mirabili: «Non ha l’abito intero prima alcun, / c’a l’estremo dell’arte e della vita». Analogamente, quando non cade in qualche forma di implicita idolatria, non vi è nulla di meno possessivo del linguaggio teologico.
Secondo lei si può parlare di fragilità della fede?
Un passo del Vangelo di Marco custodisce da quasi duemila anni la risposta più profonda a questo interrogativo. Mi riferisco all’episodio in cui un padre supplica Gesù di guarire il proprio figlio preda di uno spirito muto. Il genitore si rivolge ai discepoli ma essi falliscono, allora interpella direttamente il Maestro che risponde duramente, tacciando di incredulità la propria generazione. Nel dialogo successivo il padre, rivolgendosi al Maestro, dice: «“Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile a chi crede”. Il padre del fanciullo disse ad alta voce: “Credo, aiuta la mia incredulità (apistia)”». Dopo questo scambio di battute avviene la guarigione (Mc 9,14-29). Una prima annotazione: se i discepoli avessero guarito il fanciullo non ci sarebbe mai stato alcun dialogo tra Gesù e il padre del ragazzo. In un certo senso ciò vale per la testimonianza di tutti i credenti: quanto conta è far giungere gli «altri» a Gesù non a se stessi e alle proprie Chiese. Questo itinerario a volte si compie pure a motivo della scarsità della nostra fede.
Vi è però qualcosa di ancora più qualificante, la «non fede» (apistia) è esperienza costitutiva del credente. Affermare che tutto è possibile a chi crede fa sì che la non fede divenga componente interna all’atto di credere. L’aver alzato al massimo la forza e la portata della fede fa sì che l’incredulità sia presenza ineliminabile dell’esperienza del credente. Le ferite non sanate del mondo sono prova inconfutabile della nostra mancanza di fede. La non fede o la poca fede sono compagne fedeli del credente.
«Nulla è impossibile a chi crede» sarebbe espressione idolatrica se non fosse sorretta dalla presenza dell’apistia intesa come momento intrinseco della vita di fede. Per far sì che l’atto di credere sia davvero tale non vi può essere alcuna simmetria tra «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1, 37) e «tutto è possibile a chi crede». Nella fede è sempre contenuta una dislocazione. Si è sicuri della potenza del credere solo nel momento in cui si afferma la propria impotenza e ci si affida a Dio.
Va comunque osservato che le definizioni negative del non credente (apistos) o del poco credente (oligopistos) han ragion d’essere solo all’interno dell’orizzonte della fede. Sono un giudizio sul credente non sugli «altri».
Si può parlare di fragilità della religione?
È difficile per la religione essere fragile. In una conversazione privata, un mio interlocutore, in relazione all’interrogativo evangelico se il Figlio dell’uomo alla sua venuta troverà fede sulla terra (Lc 18,8), precisava che esso riguardava appunto la fede e non già la religione; non ci sono dubbi in relazione alla sussistenza di quest’ultima.
Vista come insieme sia di prassi sociali sia di prospettive simbolico-spirituali la religione è inestinguibile in quanto dotata della capacità di rispondere a profondi bisogni antropologici. Essa, come si è osservato infinite volte, quando non si presenta direttamente come una serie di pratiche rituali dirette al divino riemerge in forme, più o meno marcatamente, secolarizzate. La produzione simbolica nella nostra società è molto elevata, alimentata in modo evidente dall’attuale egemonia dell’iconico. Gli esempi sono ovunque, basta guardarsi attorno.
Il processo è particolarmente notevole là dove si osserva l’erosione del terreno sul quale le religioni, intese in senso tradizionale, sembravano opporre maggiore resistenza. Penso in primis ai riti funebri. Essi non sono scomparsi nella loro articolazione consueta, tuttavia sono sempre più accompagnati o sostituiti da simbologie alternative. La croce è ancora riconoscibile, essa però tende a essere rimpiazzata da altri simboli; per accorgersene basta guardare ai modi in cui sono contrassegnati, lungo le strade, i luoghi degli incidenti mortali.
Vi sono, è ovvio, anche segni legati a un’appartenenza collettiva a un gruppo (qualunque esso sia). Peraltro la produzione simbolica legata a queste dinamiche pubbliche (siano esse tradizionali connesse a processioni con statue di Madonne o santi o alternative correlate a manifestazioni politiche, sociali, sportive, ecc.) da molti mesi deve misurarsi con la situazione inedita della pandemia. Le misure anticovid ostacolano persino i piccoli riti ristretti all’ambito familiare e amicale, per non parlare, va da sé, di quelli collettivi e pubblici. Per converso, le attuali circostanze hanno ulteriormente potenziato, in ambito sia interpersonale sia collettivo, la produzione simbolica tipica dei social. Non è da oggi che si parla di cyberteologia.
Quali legami/relazioni vede possibili fra Dio, singole persone credenti, comunità in cammino e/o in conflitto?
Come Dio guardi al suo mondo ci è dato di dirlo solo attraverso un linguaggio mitico-immaginifico-narrativo. È quello della Bibbia, ma non solo di essa. Sant’Ignazio negli Esercizi spirituali (n. 108) invita la persona devota a collocarsi, con l’immaginazione, in cielo e a «guardare ciò che fanno le persone sulla faccia della terra, come sarebbe ferire, uccidere, andare all’inferno, ecc.; altrettanto guardare ciò che fanno le persone divine cioè attuare la santissima incarnazione». In queste righe la prospettiva dell’inferno è posta in continuità con il ferire e uccidere reciproci da parte degli uomini. L’inferno comincia già qui quando si scatena la violenza interumana. La dannazione è l’uomo che opprime e sopprime il prossimo suo. È quanto affermato dalla Genesi: «La terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la terra ed ecco era corrotta perché ogni carne aveva corrotto la sua via sulla terra» (Gen 6,11-12). Il riferimento a Dio è la sola prospettiva che ci conferma il fatto che violenza e corruzione siano realmente inaccettabili e non già cose che accadono inevitabilmente. L’incarnazione, per continuare a chiosare liberamente Ignazio, afferma il più profondo coinvolgimento possibile di Dio con il suo mondo «corrotto». Una verità dicibile solo nella fede. Una verifica empirica della condizione del mondo a partire dal mondo è obbligata a concludere che tutto continua ad avvenire «etsi Deus non daretur».
Crisi spirituali, sociali, economiche, ecologiche… A quale pensiero possiamo attingere per seminare alberi che diano buoni frutti?
Il mio compianto amico Gino Girolomoni è considerato uno dei padri dell’agricoltura biologica in Italia. A lui si deve una frase che dice pressappoco così (cito a memoria): «io non mi dedico all’agricoltura biologica perché penso che essa salverà il mondo, ma per non essere dalla parte di quelli che il mondo lo stanno distruggendo». Mi pare una posizione molto profonda che non vale solo per l’agricoltura o l’ecologia; con le modifiche del caso essa è applicabile a ogni aspetto sociale, economico e persino spirituale. Per sanare i disastri scaturiti da uno spirito prometeico non è dato essere a propria volta prometeici sia pure di segno opposto. Il primo intervento su una persona ferita è ricucire le lacerazioni. Se tutto va bene sarà risanata, le cicatrici però resteranno (persino il Risorto mantenne le stimmate). Prospettare un mondo del tutto risanato fu tipico di prospettive rivoluzionarie che quando furono trascritte in pratica produssero catastrofi.
In Giappone vi è un’arte chiamata kintsugi. Quando i giapponesi rompono casualmente un vasellame prezioso, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con oro, argento o lacca. Essi ritengono che quando qualcosa ha subìto una ferita e ha sofferto un oltraggio possa, se riparata, esser occasione per esprimere una forma di perfezione estetica ed interiore maggiore di quanto fosse in precedenza. Occorre ispirarsi a questa logica, anche se è solo sul piano spirituale e artistico che l’esito sarà più bello di prima (per il Vangelo è quello del peccatore pentito); nella prosa della società le ferite spesso lasciano segni negativi permanenti. Tuttavia, sia pure in maniera meno integra, la via da seguire resta quella del kintsugi.
Concetti quali “convivialità” (pensando a Ivan Illich, che ne parla in termini di virtù, in opposizione a un’apocalisse tecnocratica) e “vulnerabilità” (pensando a Judith Butler, che ne parla in termini di reciprocità e interconnessione, quando ad esempio racconta delle poesie di detenuti a Guantanamo, confiscate e distrutte perchè considerate rischiose per la sicurezza nazionale, “poesia intesa come prova e come preghiera, dove ogni parola è alla fine destinata a un altro. Le tazze di plastica dove sono incise le poesie vengono fatte passare di cella in cella; le poesie vengono fatte uscire dal campo di nascosto. Esse sono delle invocazioni. Sono dei tentativi di ristabilire la socialità del mondo, perfino quando non c’è alcuna ragione concreta di pensare che sia possibile una cosa del genere…”) potrebbero darci una traccia verso una “redenzione”?
Forse oggi il punto da salvaguardare più di ogni altro è quello della dignità umana. Un terreno che dovrebbe essere il più accomunante, eppure sappiamo che anch’esso è soggetto a contese interpretative (se non peggio). Basta pensare a una frase come quella che rivendica il fatto di morire con dignità. Lo stesso principio è invocato a sostegno di prassi opposte. Nelle applicazioni concrete le oscillazioni sono accentuate. Tuttavia l’appello non è vano per quel tanto che fa riferimento a un ambito che si pone, in ogni caso, al di là della sfera dell’utilità. La convivialità e le poesie di Guantanamo non servono a nulla e in ciò risiede gran parte della loro dignità e grandezza. In questo senso sono caparra di un mondo redento. Caparra minima perché il predominio del tecnocratico è sotto gli occhi di tutti. La strumentalizzazione universale dell’umano attuata dalla tecnica è l’apoteosi dell’utilità. Tuttavia la dignità è caparra (cioè piccola cosa) anche in un altro senso: non è dato sottrarci alla sfera dell’utile, pensiamo alla situazione attuale e al vaccino. Siamo ben consapevoli di quanti interessi economici, non solo limpidi (per essere eufemistici), vi girano attorno, eppure non siamo nelle condizioni di farne a meno. Non è certo l’unico caso; anch’esso però conferma, per via di antitesi, il fatto che la pienezza della redenzione non sia di questo mondo in cui «bene e male» sono inestricabilmente avvinghiati. Un’affermazione per secoli indiscutibile per la fede e la vita di tutte le Chiese mentre ora, per più aspetti, essa sembra presentarsi come una convinzione consegnata a una crescente marginalità.