Roma (NEV), 24 aprile 2018 – Paolo Naso, politologo e coordinatore di Mediterranean Hope – Programma Rifugiati e Migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), è stato nominato membro del Common Global Ministries Board, l’agenzia per la missione internazionale della United Church of Christ e dei Disciples of Christ, due chiese “riformate” degli USA che, nel complesso, raccolgono circa due milioni di membri.
Dopo aver partecipato alla riunione del Board, svoltasi a Indianapolis (Indiana) il 19 e il 20 aprile, il 21 aprile Naso ha partecipato a un evento ecumenico svoltosi a Washington D.C.: gli “Advocacy Days for Peace and Justice”, nei quali ha presentato il programma Mediterranean Hope. Lo abbiamo intervistato.
Paolo Naso, quali impressioni ha raccolto in questa missione negli USA?
Ho incontrato soprattutto esponenti di chiese protestanti che nel linguaggio nordamericano si definiscono “liberal”, chiese cioè molto impegnate sui temi sociali, attente alle tematiche dell’ambiente e di genere. Un tempo “spina dorsale” del protestantesimo americano, queste denominazioni da decenni subiscono la competizione delle chiese di matrice “evangelical” e pentecostale, registrando un declino dei membri e dovendo così ridimensionare drasticamente i loro apparati amministrativi. In questa particolare contingenza politica, inoltre, si trovano a dover gestire un rapporto difficile con l’Amministrazione Trump rispetto alla quale su temi come la difesa militare, l’immigrazione, i diritti delle minoranze, l’ambiente hanno una posizione di netta contrapposizione.
Ma se questa è la dimensione della crisi del protestantesimo liberal che è più facile percepire, al tempo stesso colpisce la sua grande energia sul piano spirituale della testimonianza e della predicazione. Contrariamente a quel che si pensa, il protestante liberal che frequenta una chiesa storica come la Presbyterian Church o la United Church of Christ (UCC), unisce a un forte impegno per la testimonianza pubblica e sociale della sua fede, una profonda spiritualità.
Lei ha partecipato agli “Advocacy Days for Peace and Justice”, svoltisi a Washington. Di che si tratta?
È un appuntamento ecumenico convocato dalle maggiori agenzie diaconali e sociali delle chiese protestanti “liberal” – difficile trovare un’espressione meno generica – che per tre giorni si confrontano su temi molto diversi: dall’ambiente alla pace in Medio Oriente, dall’accoglienza ai migranti alle questioni di genere. E lo fanno con partner internazionali. A me, ad esempio, è capitato di parlare delle migrazioni mediterranee insieme alla direttrice dei programmi sociali del Consiglio delle chiese del Medio Oriente che opera nei campi profughi della Giordania, dove si raccolgono un milione di persone: due punti di vista diversi sullo stesso problema globale.
Piccola nota di colore: gli incontri hanno avuto luogo in una sede che guardava sul Lincoln Memorial, dove nel 1963 Martin Luther King pronunciò il suo discorso più famoso, e nell’anno in cui si ricordano i cinquant’anni dall’assassinio del pastore battista. Ma non era solo una suggestione scenica: il pensiero e l’azione di M.L. King restano un pilastro del pensiero di alcune chiese protestanti che ancora oggi sono chiamate a riflettere e ad agire sui temi che egli agitava negli anni ’60, a iniziare da quello dell’integrazione tra bianchi e afroamericani.
Dopo tanti anni e dopo la presidenza Obama, il tema del “colore” è ancora “caldo”?
Più che mai. Dietro la linea della divisione etnica c’è anche quella della divisione sociale. Afroamericani, ispanici e nativi restano più poveri della media degli americani, hanno meno opportunità di studio e di lavoro, statisticamente hanno una possibilità assai più alta di finire in carcere. Ovviamente la responsabilità di questa situazione ha radici lontane, non ultime la difficoltà delle amministrazioni democratiche a imprimere un segno diverso alle politiche sociali. Compresa l’amministrazione Obama.
A che servono incontri come quelli a cui ha partecipato?
A rafforzare reti ecumeniche internazionali che chiedono un cambiamento di strategia sui temi dell’ambiente, dei diritti umani, delle migrazioni. In un mondo interdipendente, se si vuole essere efficaci nella propria testimonianza cristiana per la giustizia e la pace, bisogna globalizzare anche la diaconia e la solidarietà.
Le faccio un esempio: ho incontrato dei pastori della UCC che si impegnano ad assistere i migranti lungo il confine tra il Messico e l’Arizona. Lo fanno distribuendo acqua, segnando i sentieri, rischiando la denuncia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma è esattamente quello che si fa anche in Italia sui sentieri verso la Francia; o nel Mediterraneo, con le operazioni di soccorso in mare a cui anche la Federazione delle chiese evangeliche sta partecipando. Saperlo aiuta, conforta e rafforza.
"The faith of our churches was brought here by migrants." #EAD2018 #migrantsmatter #refugeeswelcome #immigrantswelcome #greateras1 pic.twitter.com/KwFezxIs6p
— UCC Justice & Witness Ministries (@justice_ucc) April 23, 2018