Roma (NEV), 28 febbraio 2025 – A margine del convegno “40 anni dopo la prima intesa. Bilanci, prospettive, criticità”* tenutosi la settimana scorsa a palazzo Montecitorio, abbiamo interpellato il prof. Carmine Napolitano (Facoltà pentecostale di Scienze religiose, nonchè componente della Commissione chiese evangeliche per i rapporto con lo Stato (CCERS) e già presidente della Federazione delle chiese pentecostali (FCP) sul tema dell’ecumenismo. Quest’anno rappresenta una tappa storica per il cristianesimo, in quanto si celebrano i 1700 anni dal Concilio di Nicea.
La centralità̀ dell’esperienza carismatica è un elemento distintivo del movimento pentecostale. In che modo questa centralità̀ influenza il rapporto con l’ecumenismo e quali sono le principali sfide che ne derivano?
La spiritualità pentecostale è stata considerata per decenni più una stravaganza anziché un’istanza che affondava le radici nella più antica tradizione cristiana. Inoltre, non si può sottovalutare il peso della dinamica che portò alla nascita delle chiese pentecostali; infatti, come movimento di risveglio che all’inizio del XX secolo si sviluppò trasversalmente alle chiese evangeliche soprattutto in area angloamericana, il fenomeno suscitò interesse e ravvivamento della fede, ma anche molte critiche e aspre opposizioni che nel giro di un decennio obbligarono migliaia di persone a riconoscersi in nuove forme di chiesa. Si capisce, quindi, come fosse assai difficile che ci potesse essere un incontro tra questi due movimenti che nacquero quasi contemporaneamente, ma per ragioni e con caratteristiche molto diverse. È stato difficile, e per molti aspetti ancora lo è, superare pregiudizi e analisi affrettate sul movimento pentecostale che spesso è stato considerato niente più che una sollecitazione emotiva di gente ignara e sprovveduta. Se poi si aggiunge anche la forte spinta missionaria e la propensione all’azione evangelizzatrice che caratterizza il mondo pentecostale spesso scambiate per proselitismo, si capisce come questa spiritualità venga percepita talvolta più come una minaccia che come una risorsa, considerata anche la indubbia capacità di attrazione. Eppure, tutte le analisi socio religiose testimoniano che l’area pentecostale per il momento è l’unica, all’interno del mondo cristiano. a reggere di fronte all’urto della crisi profonda che il cristianesimo contemporaneo sta attraversando. È evidente che l’intero movimento ecumenico deve trovare forme di dialogo e di collaborazione con il mondo pentecostale se non vuole venire meno alla sua missione.
Il dialogo interreligioso rappresenta una sfida e un’opportunità̀ per tutte le confessioni cristiane. Quale contributo specifico possono offrire i pentecostali a questo dialogo?
Il dialogo interreligioso non è sconosciuto al mondo pentecostale, soprattutto in quelle zone del mondo dove esso rappresenta l’unica forma di cristianesimo accanto ad altre espressioni religiose non cristiane. All’interno del mondo cristiano il pentecostalesimo e la spiritualità carismatica esprimono l’originaria dimensione esperienziale del fenomeno religioso; in fin dei conti, l’idea che il trascendente possa diventare esperienza immanente è alla base di qualunque esperienza religiosa. E in quasi tutte le esperienze religiose, in particolare di quelle afferenti ‘i figli di Abramo’, l’elemento catalizzatore di questa dinamica è costituito dalla dimensione spirituale: lo spirito (scritto con la minuscola o la maiuscola) costituisce l’elemento mediatore. I pentecostali, sia pure con qualche difficoltà sul piano teologico, fanno di questa dimensione la ragion d’essere del proprio cristianesimo e perciò potrebbero dare un contributo significativo al dialogo tra cristiani e altri mondi religiosi.
Il pentecostalesimo è un fenomeno globale che attraversa culture, lingue e contesti sociali diversi. Questa spontanea e trasversale interculturalità̀ può̀ rappresentare una risorsa per il dialogo tra le chiese. Cosa ne pensa?
Attraversa anche confessioni cristiane diverse; a partire dal secondo dopoguerra l’esperienza carismatica ha interessato in modo incisivo quelle aree cristiane che all’inizio del Novecento avevano respinto la proposta pentecostale. Ciò ha prodotto la nascita di correnti carismatiche di ascendenza pentecostale in tutte le confessioni cristiane. È proprio questa trasversalità che può generare nuove prospettive ecumeniche vedendo nell’esperienza carismatica una delle possibilità per superare le divisioni; in questa prospettiva il cammino parallelo del pentecostalesimo e dell’ecumenismo può essere configurato come un modo complementare di assecondare l’azione dello Spirito che lavora per l’unità dei cristiani. Insomma, un ecumenismo all’insegna dell’esperienza dello Spirito che, come insegnano i testi biblici, unisce attraverso la diversità. Il recupero della riflessione sulla centralità dell’esperienza dello Spirito e sul significato di tale esperienza che caratterizza una significativa parte della teologia contemporanea, è un indubbio risultato della sollecitazione che il mondo pentecostale ha rivolto con la sua prassi e le sue modalità comunicative all’intero cristianesimo.
Quest’anno, nel corso della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, si è registrata una significativa partecipazione pentecostale, proprio nell’anno in cui si celebra il 1700° anniversario del Concilio di Nicea. Secondo lei, in che modo questo fatto può̀ cambiare le passate pratiche ecumeniche?
Si tratta di una tendenza in atto da qualche anno. Quando si invitano i pentecostali a pregare si tocca una corda sensibile della loro spiritualità; bisogna solo fare attenzione a non trasformare queste occasioni in uno strumento di politica ecumenica ecclesiastica altrimenti il rischio di perderli di nuovo diventa alto. La SPUC rappresenta un gesto molto potente sul piano della comunicazione ed è questa la ragione per cui molti pentecostali ancora se ne tengono lontani; per loro è impossibile pensare di pregare insieme se rimangono irrisolti importanti e decisivi nodi sul piano delle relazioni, a partire da quel convitato di pietra nelle relazioni ecumeniche rappresentato dalla libertà religiosa che nel nostro Paese per molti pentecostali è ancora piuttosto limitata. Insomma: non si aspetti solo questi momenti per invitarli a pregare insieme. Non so se questo incremento di presenze possa effettivamente segnare un’inversione di tendenza; ma se lo è mi auguro che le altre confessioni cristiane sappiano intercettarla nel modo giusto e incoraggiarla in modo adeguato. Le celebrazioni del concilio di Nicea possono segnare un’importante occasione; in questa direzione segnalo che la Facoltà pentecostale di Scienze religiose è coinvolta in un importante progetto di ricerca internazionale legato al 1700° anniversario.
Guardando al futuro, quali passi concreti potrebbero essere intrapresi per avvicinare ulteriormente i pentecostali al dialogo ecumenico e interconfessionale, senza rinunciare alla loro identità̀ e alla loro visione teologica?
Contrariamente a quanto si potrebbe credere i pentecostali sono coinvolti in tutti i circuiti ecumenici più significativi e siedono da decenni ad importanti tavoli di dialogo teologico, soprattutto a livello internazionale. Tuttavia, è necessario che il movimento ecumenico prenda atto del fatto che il cristianesimo pentecostale e quello più ampiamente carismatico interpretano un’esigenza fondamentale e cioè che la fede cristiana non può ridursi ad essere solo elaborazione teologica e dialogo prevalentemente intellettuale; essa vuole essere elaborata, vissuta e goduta attraverso una pluralità di registri e di proposte spirituali che devono essere integrati nel più ampio quadro della tradizione cristiana. Si tratta di una prospettiva decisiva e centrale entro la quale bisognerà muoversi nei prossimi anni facendo tesoro di quanto da tempo autorevoli studiosi vanno segnalando. Ma anche il movimento pentecostale e carismatico deve prendere atto del fatto che la sua comparsa nella storia è avvenuta nel quadro della tradizione cristiana e perciò non può procedere come se tutto il resto non fosse mai esistito o non esista. Bisogna trovare nuove parole, ma poi verificare che queste parole siano consone alla ricerca da svolgere e quindi diventino concetti, e i concetti siano legati in proposizioni che permettono di elaborare riflessioni condivise per poi arrivare a metodi affidabili. Insomma: è necessaria un’educazione all’ecumenismo con la quale si possa elaborare non solo il quadro teorico, ma anche l’impegno pratico che non di rado assume il volto della ricerca e della sperimentazione; e proprio per questo non dà per scontato i risultati: nei tempi e neanche nei modi.
* Convegno promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e dalla Commissione delle Chiese evangeliche per i Rapporti con lo Stato (CCERS).